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Nel linguaggio storico col termine “Foibe” si indicano le violenze di massa a danno di militari e civili attestate dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945, di fatto sono degli inghiottitoi naturali, tipici dei terreni carsici, profondi molte decine di metri con un diametro altrettanto grande. La loro origine risale a Roma Antica e sono sempre state utilizzate dalle popolazioni per occultare corpi, carcasse di animali o materiale di scarto. Dopo l’8 settembre del 1943 le vittime finite in quei pozzi enormi avevano un elemento in comune: erano italiani. La strage delle foibe trae origine proprio dall’armistizio firmato in quell’anno a Cassibile, vicino Siracusa, fra l’Italia e gli Alleati (Stati Uniti, Impero Britannico, Unione Sovietica). Un atto che mise in pericolo i punti marginali del territorio italiano, trasformandoli in città aperte, perché decretò la fine di un apparato statale già crollato con la caduta del Fascismo. Una pagina di storia dimenticata dalle istituzioni democratiche in Italia e resa solennità civile solo nel 2004. A Trinitapoli il “Giorno del Ricordo” non è stato dimenticato, grazie al lavoro dell’amministrazione comunale (che 2012 fece affiggere una targa proprio in Via Isonzo) e del “Comitato 10 Febbraio”. Quest’anno nella biblioteca comunale “Mons. Vincenzo Morra” il Comune ha ospitato due esuli che hanno vissuto in prima persona il dramma di ritrovarsi a vivere in una terra che non era più la loro. Carlo Cesare Montani, storico e pubblicista, e Laura Brussi, associazione nazionale Congiunti dei Deportati in Jugoslavia – Volontariato per non dimenticare, esuli rispettivamente a Fiume e a Pola, due città della Croazia un tempo italiane. In termini storici il territorio prendeva i il nome di Venezia Giulia, finito sotto il dominio italiano nel 1941 quando la Germania invase la Jugoslavia e l’Italia, alleata dei tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale, piazzò le sue basi in diversi punti, fra cui la Venezia Giulia. Con la fine del conflitto e i trattati di pace di Parigi del 1947, che ridisegnarono l’Europa, all’Italia restò solo una parte del territorio (il Friuli da cui nascerà la regione Friuli-Venezia Giulia), perdendo gli altri insediamenti fra cui Pola e Fiume. Montani e Brussi girano le scuole e le città d’Italia per mantenere viva la memoria dei martiri e degli esuli.

Un Paese che a un certo punto abbandonò i propri cittadini in preda alla brutalità dei comunisti del maresciallo Josip Broz Tito che non fece altro, con la caduta dello Stato italiano, che sterminare la popolazione presente nelle terre jugoslave. Il metodo era “infoibare”, cioè buttare cadaveri e persone vive nelle foibe. La tecnica più sbrigativa utilizzata dai comunisti era quella di legare con un filo di ferro più persone e posizionarle a ridosso del bordo della foiba, ne colpivano a morte la prima con un fucile e le altre venivano tirate giù e lasciate morire. Addirittura Montani ha raccontato che «c’era l’usanza di mettere un cane nero nella foiba, con la credenza che l’anima del cane potesse dannate in eterno le anime appartenuto ai corpi delle vittime». Laura Brussi ha pianto quando ha ascolta l’inno italiano e si è emozionata quando ha visto un grande numero di italiani, casalini e dei dintorni, pronti ad ascoltare la sua testimonianza. «Furono 350 mila – 300 in Puglia – gli esuli che scapparono dal terrore e dalla morte – ha affermato la Brusi -. Non avevano nulla. Solo tanta fame. In Italia, però, non trovarono accoglienza». Infatti chi volle salvarsi la pelle fu costretto a emigrare e a lasciare le proprie case. Prese vita così “L’esodo Giuliano Dalamata”. Dal secondo dopoguerra gli italiani incrementarono gli spostamenti verso il territorio italiano, convinti di trovare accoglienza da parte dei compatrioti. Ciascuno ammassava tutto ciò che aveva in casa su un carretto, poi si dirigeva verso il molo o la stazione con la propria famiglia e prendeva il mezzo per andare in Italia. Nessuno aveva intenzione di lasciare nulla in quelle case che dal 1947 con un decreto dello Stato jugoslavo furono requisite come risarcimento che l’Italia avrebbe dovuto versare per i danni guerra subito dalla Jugoslavia. Vicenda che si concluse nel 1980 con la morte di Tito, quando fu la Jugoslavia a versare un risarcimento allo Stato italiano per i beni confiscati agli italiani. C’era chi dalle abitazioni tentava di portare via anche il pavimento in legno. Se avessero potuto, si sarebbero portati anche le mura di una casa che è stata loro sottratta solo perché erano italiani. Fascisti, repubblichini, partigiani, antifascisti, non importava il credo politico e l’età: era tutti italiani e quindi andavano eliminati brutalmente o cacciati. Chi lasciò la Venezia Giulia non fu affatto accolto dagli italiani in Patria, i quali non avrebbero voluto che loro tornassero viste le scarse risorse a disposizione. Infatti chi emigrava dalla Jugoslavia alla volta dell’Italia, veniva sistemato in vecchi edifici, ex conventi diroccati, a partire il freddo e la fame. Gli aiuti c’erano ma erano minimi. La Croce Rossa faceva quel che poteva, ma i comunisti in Italia continuavano a mostrare la loro indole carnefice. «Un treno di esuli – ha raccontato la Brussi – fu fatto fermare a Bologna per consentire alle crocerossine di consegnare il latte a donne e bambini digiuni da giorni. I comunisti presenti in stazione lo impedirono, versando il latte sui binari».